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La vicevita

Oggi ho iniziato e finito in treno un libro di Valerio Magrelli (e ringrazio la mia amica-collega Angela per avermelo prestato) dal titolo intrigante LA VICEVITA. Sottotitolo quanto mai esplicito: TRENI E VIAGGI IN TRENO.
In effetti Magrelli riesce a tracciare affreschi poetici raccontandoci aspetti del viaggio in treno che un po’ tutti noi pendolari abbiamo condiviso.
Ne propongo, senza altro aggiungere, alcuni stralci, liberamente scelti tra quelli che più mi sono piaciuti, tra le sensazioni in cui più mi sono identificata, tra le riflessioni che più mi hanno fatto pensare.

Chi sta in treno, è segno che vuole andare da qualche parte, e lo fa sempre e solo in vista di qualcos’altro. Il suo scopo, cioè risiede altrove […]
La nostra vita pullula di queste attività strumentali e vicarie, nel corso delle quali, più che vivere, aspettiamo di vivere, o per meglio dire, viviamo in attesa di altro. […] Sono i momenti in cui facciamo da veicolo a noi stessi. È ciò che chiamerei: la vicevita.

 ***

A quest’ora l’occhio
rientra in se stesso.
Il corpo vorrebbe chiudersi nel cervello
per dormire.
Tutte le membra rincasano:
è tardi. E queste ragazze
sul sedile del treno
reclinano col sono nella testa
stordite dal riposo.
Sono animali al pascolo.

***

Giocano a carte in treno (ragazzi e vecchi) o guardano fuori. Ma io in treno leggo, e leggo per narcotizzarmi, narcotizzando il viaggio: lettura come antidoto. Metto in stand-by le pulsioni, le paure, i desideri, conservando soltanto il funzionamento della mente. Si chiama paradiso: “Sono qui seduto e leggo un poeta. Nella sala ci sono molte persone ma non si fanno sentire. Sono dentro i libri. Qualche volta si muovono fra un foglio e l’altro, come uomini che si rivoltano nel sonno, fra un sogno e l’altro come si sta bene in mezzo agli uomini quando leggono. Perché non sono sempre così?”

 ***

Sbucano poco prima della partenza, rapidi e operosi. Sono il popolo dei Muti, svelti svelti, che appare d’improvviso, e semina nel treno spille o santini. Dura un istante, è un soffio, e mi ritrovo fra le mani questi poveri ninnoli, accompagnati da una spiegazione scritta. Ripasseranno fra poco, ma senza chiedere nulla. Se non hai accettato i loro doni, li riprendono quieti e se ne vanno, questi elfi ferroviari, invisibili come sono venuti.

***

A volte i suicidi bloccano un treno. […] così stiamo fermi da ore, immobilizzati, esposti a quell’intollerabile carico di pena che ha spinto qualcuno sotto le nostre ruote.
Io odio l’uomo che ha fermato il treno, e odio il treno che lo ha smembrato vivo, e odio il mio odio, e provo un’atroce vergogna per questi sentimenti. Eppure sento d’aver subìto un’aggressione. Qui non c’è il tronco gettato dai banditi di traverso, a sbarrare i binari; adesso, di traverso, sta solo un’immensa sofferenza, che appena i vagoni si fermano, ci dà l’assalto e ci svaligia tutti.
No, c’è una differenza tra i predoni e il suicida. Quelli ti attaccavano per portarti via i bagagli; questo, al contrario, ti obbliga ad accettarne un altro. Nulla si crea, e nulla si distrugge: il suo dolore non è affatto scomparso, ma è stato distribuito fra i presenti, benché in parti diseguali.
E quando si riparte, si pesa un po’ di più.

***

Pendolari, la mattina d’inverno. Alle otto arriva un treno strapieno di sospiri. Scendono, e lasciano uno scompartimento caldo, nutrito di fiato. Sembra l’interno di un materassino da spiaggia, gonfio d’alito umano. Loro si avviano, noi li sostituiamo, in un mesto commercio di respiri.

polemiche di provincia

Il mio post precedente è diventato, quasi per caso, un articolo per lo stesso mensile. Un po’ modificato, naturalmente  perché una cosa è scrivere sul un blog che è come una forma di diario di cui rispondo in prima persona, altra cosa è scrivere su un mensile cartaceo e collettivo.
Ho scritto un articolo sotto forma di lettera, molto più equilibrato del post, rispettoso, non certo prendendomela con l’autrice ma prendendo la sua infelice frase come spunto per poter dire quello che penso in merito.
L’articolo è anche piaciuto, insomma, era senza pretese però tocca alcuni temi a cui tengo molto.
Scrivo per esempio: Noi donne oggi combattiamo da una parte con una vocina atavica (quanto somigliante a quella delle nostre mamme, zie, nonne…) che ci fa sentire inadeguate se il nido domestico non è perfettamente a posto e se la cena non è ancora pronta, dall’altra con una società che ci vuole premurose, disponibili e giovanili in ogni occasione.

E ho concluso consigliando di leggere il libro di Michela Murgia (Ave Mary) cogliendo l’occasione per parlare di un libro e di un tema che mi sta a cuore:
Avrei solo un ultimo suggerimento, se mi permette. Legga Ave Mary di Michela Murgia (Einaudi).Le rivelerà aspetti inediti della donna per eccellenza, Maria di Nazareth. Che il “sì” di Maria, per esempio, non era un sì di sottomissione (come la Chiesa degli uomini ci ha convinto a pensare) ma di ribellione.

Si ribella, infatti, a quello che la società dell’epoca riteneva fosse il suo “dovuto” (quale ragazza non avrebbe risposto “ne parlerò con mio padre”?) e invece decide liberamente di accettare la proposta “indecente” dell’angelo mandato dal Signore.
E meno male che lo ha fatto. Altrimenti non staremmo qui, io e lei, a parlarne.

Mi pare anche rispettoso, o no?
Beh non ci crederete ma quella che mi era stata descritta come una innocente ottantenne ha mandato una lettera di fuoco in redazione: inopportuna, insensata e offensiva. Per fortuna non la pubblicheranno, sarebbe una inutile polemica e non era quello lo spirito del mio articolo. Ma la signora  deve essere una di quelle matrone da salotto di provincia abituata a essere giudicata sempre brillante e arguta. Tra le altre cose mi ha definito una “femminista estrema” autodefinendosi “femminista autentica” e temo ne sia convinta. Una che dice che al marito non si può chiedere più del dovuto come aiuto in casa? Bah. E comunque io non sono femminista, né estrema, né autentica, né doc o quel che si vuole.

Riporto solo la risposta al mio suggerimento  di lettura (a quanto pare la cosa l’ha offesa molto, come se le avessi detto signora lei è un’ignorante):
A parte l’imperdonabile colpa di non conoscere questa grande opinionista (povera Michela Murgia ridotta al ruolo di opinonista), lei crede davvero logico appiccicare questa etichetta ad una donna umile, povera e ubbidiente che, pure spaventata dall’enormità della “proposta indecente” le si è tuttavia adeguata? Non è Lei che ha portato in seno il figlio di Dio per poi farlo nascere in un tugurio, respinta da tutti, e che poi il figlio ha seguito nel suo sublime cammino di sommo maestro sino all’atroce e ingiusta morte sulla croce? Lasciamo andare signora il suo femminismo è davvero irrispettoso oltre che capotico
(sic).

Insomma Maria di Nazareth non è una ribelle ant litteram. E pazienza, ognuno ha le sue idee. però capotica non me lo h amai detto nessuno. Onore al merito.
Sorpresa e amareggiata da questa sterile polemica, molto provinciale, ma non ci sto a farmi trascinare in queste logiche da cortiletto. Io dico quello che penso. Punto.
Però a dire il vero ora mi è stato chiesto di tenere una rubrica fissa per questo mensile. Una sorta di Diario di una casalinga (disperata?). A me piacerebbe, mi piace scrivere (anche se già mi chiedo dove troverò il tempo). Potrebbe diventare una sezione di questo blog che aggiorno così poco… Però sono  titubante. Non vorrei attirarmi addosso le ire di tutte le vecchiette del quartiere… HELP. Scherzi a parte… è che ogni volta che mi espongo, che dico davvero quello che penso succede qualche casino. Chi me lo fa fare?

“l’ira funesta delle cagnette a cui aveva rubato l’osso…”

Per sempre ragazzo

Se devo pensare a un momento in cui ho smesso di essere giovane, in cui cioè ho smesso di credere che ci fossero, distinti, il Bene e il Male, che ci fosse, nascosta da qualche parte, la Giustizia, è stato un giorno preciso: il 20 luglio 2001. Dieci anni fa.

Me lo ricordo come se fosse ieri.
Io a Genova ci volevo andare. Per me era normale dopo tante marce per la pace, andare lì a dire come la pensavo, che mondo volevo. L’husband sapeva che qualcosa di brutto sarebbe successo. È andata a finire che ci siamo fermati un giorno di più in Svizzera e da lì abbiamo saputo subito quello che in Italia ancora non si sapeva.
Le immagini di quel ragazzo morto, lo schifo per quello che in Italia si diceva, la percezione che qualcosa si era rotto per sempre. Il senso di ingiustizia e di impotenza. Rabbia e dolore.
Quel ragazzo, Carlo Giuliani, per me è stato fin da subito il simbolo della giovinezza perduta. La sua soprattutto: 21 anni sono davvero troppo pochi per morire. Ma anche la mia, e quella di chi finora aveva pensato che si potesse cambiare il mondo.
Gli hanno dedicato libri e film in questi dieci anni. Ma soprattutto avrebbero dovuto dedicargli quella piazza. Piazza Alimonda doveva diventare “Piazza Carlo Giuliani, ragazzo”. Saremmo ancora in tempo, ma ho la sensazione che il Potere non lo permetterà.


È da poco uscito il libro Per sempre ragazzo (Marco Tropea Editore), con poesie e racconti a lui dedicati.
Per sempre ragazzo, già. Lui sì. Noi no.
Era solo un ragazzo di ventuno anni. Oggi è un simbolo, ma io avrei preferito che fosse diventato uomo. E anche sua madre Haidi, piccola grande donna.
Scrive Erri de Luca:

Lui non voleva un nome, quel mattino di luglio voleva andare al mare.

E così conclude:

Pensò al respiro di sua madre, il mare.
Poi scivolò sul fondo, senza peso di vita.
Dice il proverbio persiano: «Se vuoi farti un nome,viaggia o muori».
Dieci anni più tardi il suo nome viaggia
insieme alle onde che sono la maggioranza del mondo.

Un “ritratto” poetico. Ma la verità è, anche, un’altra. Molto meno poetica. Lo scrive Massimo Carlotto, nello stesso libro

Non ti possono cancellare dalla memoria di questo Paese ma sono convinti di modificarla, di addomesticarla. Si sbagliano, ma che fatica! Dieci anni a rintuzzare parola per parola.
Chi ti ha assassinato è una figura tragica. Una delle tante usa e getta di questa società che divora tutto e tutti. Ma quello che oggi faccio fatica a raccontarti è che i pretoriani e i loro capi hanno fatto carriera. Che le foto che li ritraggono vittoriosi, nelle loro buffe divise da guerrieri dei fumetti, resteranno appese alle pareti dei luoghi infami dove la memoria è solo vergogna.
Il fatto è che i politici che tramarono, ordinarono e depistarono sono sempre gli stessi e che l’uomo forte del governo, che agiva da generale dalla caserma dei carabinieri, oggi è diventato un indispensabile difensore della democrazia. Uno statista. No, Carlo caro, non sto scherzando. Siamo stati traditi da tutti coloro che hanno finto sdegno ma si sono ben guardati dall’imporre la commissione d’inchiesta su quanto accadde a Genova in quei giorni di luglio.