Oggi ho iniziato e finito in treno un libro di Valerio Magrelli (e ringrazio la mia amica-collega Angela per avermelo prestato) dal titolo intrigante LA VICEVITA. Sottotitolo quanto mai esplicito: TRENI E VIAGGI IN TRENO.
In effetti Magrelli riesce a tracciare affreschi poetici raccontandoci aspetti del viaggio in treno che un po’ tutti noi pendolari abbiamo condiviso.
Ne propongo, senza altro aggiungere, alcuni stralci, liberamente scelti tra quelli che più mi sono piaciuti, tra le sensazioni in cui più mi sono identificata, tra le riflessioni che più mi hanno fatto pensare.
Chi sta in treno, è segno che vuole andare da qualche parte, e lo fa sempre e solo in vista di qualcos’altro. Il suo scopo, cioè risiede altrove […]
La nostra vita pullula di queste attività strumentali e vicarie, nel corso delle quali, più che vivere, aspettiamo di vivere, o per meglio dire, viviamo in attesa di altro. […] Sono i momenti in cui facciamo da veicolo a noi stessi. È ciò che chiamerei: la vicevita.
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A quest’ora l’occhio
rientra in se stesso.
Il corpo vorrebbe chiudersi nel cervello
per dormire.
Tutte le membra rincasano:
è tardi. E queste ragazze
sul sedile del treno
reclinano col sono nella testa
stordite dal riposo.
Sono animali al pascolo.
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Giocano a carte in treno (ragazzi e vecchi) o guardano fuori. Ma io in treno leggo, e leggo per narcotizzarmi, narcotizzando il viaggio: lettura come antidoto. Metto in stand-by le pulsioni, le paure, i desideri, conservando soltanto il funzionamento della mente. Si chiama paradiso: “Sono qui seduto e leggo un poeta. Nella sala ci sono molte persone ma non si fanno sentire. Sono dentro i libri. Qualche volta si muovono fra un foglio e l’altro, come uomini che si rivoltano nel sonno, fra un sogno e l’altro come si sta bene in mezzo agli uomini quando leggono. Perché non sono sempre così?”
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Sbucano poco prima della partenza, rapidi e operosi. Sono il popolo dei Muti, svelti svelti, che appare d’improvviso, e semina nel treno spille o santini. Dura un istante, è un soffio, e mi ritrovo fra le mani questi poveri ninnoli, accompagnati da una spiegazione scritta. Ripasseranno fra poco, ma senza chiedere nulla. Se non hai accettato i loro doni, li riprendono quieti e se ne vanno, questi elfi ferroviari, invisibili come sono venuti.
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A volte i suicidi bloccano un treno. […] così stiamo fermi da ore, immobilizzati, esposti a quell’intollerabile carico di pena che ha spinto qualcuno sotto le nostre ruote.
Io odio l’uomo che ha fermato il treno, e odio il treno che lo ha smembrato vivo, e odio il mio odio, e provo un’atroce vergogna per questi sentimenti. Eppure sento d’aver subìto un’aggressione. Qui non c’è il tronco gettato dai banditi di traverso, a sbarrare i binari; adesso, di traverso, sta solo un’immensa sofferenza, che appena i vagoni si fermano, ci dà l’assalto e ci svaligia tutti.
No, c’è una differenza tra i predoni e il suicida. Quelli ti attaccavano per portarti via i bagagli; questo, al contrario, ti obbliga ad accettarne un altro. Nulla si crea, e nulla si distrugge: il suo dolore non è affatto scomparso, ma è stato distribuito fra i presenti, benché in parti diseguali.
E quando si riparte, si pesa un po’ di più.
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Pendolari, la mattina d’inverno. Alle otto arriva un treno strapieno di sospiri. Scendono, e lasciano uno scompartimento caldo, nutrito di fiato. Sembra l’interno di un materassino da spiaggia, gonfio d’alito umano. Loro si avviano, noi li sostituiamo, in un mesto commercio di respiri.